giovedì 16 dicembre 2010

Avventura a due nei pressi del Flamingo Club


Si prospettava una grande giornata.

"Siamo pronti ragazzi? Dai che questa volta ce la facciamo!" urlai.
Nuovamente in piedi, rieccoci ognuno sulle nostre fide tavole. Per un attimo ci lasciammo sferzare teneramente dall'aria gelida mentre i nostri sguardi si perdevano incantati fra les Alpés che, innevate, ci sovrastavano. Alte e pericolose, da sempre proteggevano quella regione nel sud della Francia dalla follia che più di una volta aveva toccato il resto del continente. Erano le pareti del nostro mondo e noi le amavamo e rispettavamo come meritavano.
I ticchettii metallici di ganci che legavano il nostro destino a pezzi di legno armati di lamine erano gli unici rumori del monte Saint Michelle.
Gli ultimi resti di pensiero cosciente velocemente lasciarono il posto all'adrenalina mentre uno stupido sorriso si disegnava sui nostri volti. Spavaldi adolescenti dinanzi ad un pedante adulto.

Personalmente sono questi i momenti che preferisco: quando la tensione ti fa' superare i limiti; quando il mondo rallenta al tuo cospetto; quando percepisci suoni e odori prima inesistenti; quando ti senti veloce; più veloce degli altri che spariscono alla tua vista disgustandoti con la pateticità dei loro comportamenti senza eroismo. Nulla può fermarti in quegli istanti. Sei brutalmente vivo e tutto il resto è al tuo servizio.


Non so cosa stesse frullando nella mente dei miei compagni, ma non m'importava un granché: di lì a poco saremmo stati io e la montagna, con la tavola chiamata ad unico interprete di quest'amore impossibile.

"Daje!" Questa l'esclamazione che mise fine ai miei pensieri. Il grido proveniva alla mia destra poco più in basso. Era Annette, mia sorella minore che si lanciava alla conquista della montagna. Da quando era tornata, si faceva coraggio con quell’assurda esclamazione imparata durante il suo recente soggiorno romano.
Come al solito, i novellini che ospitavamo nel gruppo erano puntualmente i più impazienti ed affamati di neve. Mia sorella non era l'eccezione alla regola, anzi. Il suo entusiasmo era il suo marchio di fabbrica assieme a quegli occhi giallo Senegal che tanto le invidiavo. L'osservavo surfare felice tra la neve: era imprecisa nelle traiettorie e con uno stile in evoluzione, ma al contempo impavida e veloce. Scossi la testa in segno di  disapprovazione a quella condotta. Era ardita, screanzata e pericolosa, però mi piaceva. Tutto sommato aveva il mio stesso sangue. E la mia stessa rabbia.

Alzai lievemente il piede sinistro facendo prendere vita ad Atlantis, la mia tavola. Tempo addietro lessi su qualche rivista psicologica di Annette che il fenomeno dell'antropomorfismo è accentuato nei bambini. Guardai allora gli altri che con me costituivano i Goélands Rouge, erano in piedi sulle loro tavole tutte regolarmente marchiate con il proprio nome; guardai le tinte accese delle tute indossate e studiai le loro pose: erano inamovibili sognatori. Arrivai alla conclusione che forse la psicologia non rientrava tra le follie del mondo. O almeno, non del tutto.

Atlantis lentamente prendeva velocità mentre il mio sguardo veniva celato al mondo da occhiali cromati che feci scendere con un cenno del capo. Ero pronto a volare. Mi piegai sulle ginocchia mentre pian piano allargavo le braccia. Ed eccomi, un lampo rosso che sfreccia sulla neve lasciandoci il segno. Sento dietro di me il resto del gruppo che rumorosamente mi segue. Mi giro un attimo e diavolo se siamo belli. Ora, però, non potevo perdere tempo, avevo una sorella da educare.
Lasciai gli altri alle prese con la nuova acrobazia che stavamo studiando e con Atlantis mi diressi alla volta di Annette. Non toccava a lei rompere le righe e questa volta mi avrebbe sentito.

La raggiunsi agilmente. Stava tentando un trick che le aveva spiegato Ruggiero dopo qualche birra al Flamingo Club, locale di uno dei suoi tanti cugini e nostro rifugio preferito. Rouge (Ruggiero si faceva chiamare anche così per tentare di occultare le sue origini di mangiaspaghetti) era diventato subito nostro amico, e col tempo un fratello acquisito. Stavamo assieme giorno e notte ma quella mattina, era stato trattenuto. La sera precedente aveva avuto dei problemi con un boliviano ubriaco al rifugio  che aveva risolto a modo suo, quindi invitato gentilmente a pernottare in cella per l'ennesima notte. Lui aveva un metodo infallibile contro i molestatori ubriachi. In un primo momento li invitava ad uscire in francese e con grande cortesia, poi passava al tedesco riducendo il garbo della richiesta quasi seguisse il suono dei due idiomi; infine, s'affidava all'americano facendosi aiutare da una mazza da baseball dei New York Yankees, pensiero ricevuto da un altro dei suoi tanti cugini che era andato a trovare.
Il problema di Rouge, oltre alle schifezze ingurgitate a qualsiasi ora, era che stranamente la legge tollerava solo le prime due lingue.

Sfiorai mia sorella a tutta velocità facendole perdere l'equilibro ma non abbastanza da farla cadere. La ragazzetta s'era allenata parecchio nell’inverno passato a mangiare pizza e di lì a poco m'avrebbe mostrato tutti i suoi progressi. Non ci pensò neppure un istante, si mise a rincorrermi e sapevo che l'adrenalina le avrebbe fatto ignorare quel poco di prudenza che le era rimasta, pur di superarmi. Prima che ce ne potessimo accorgere eravamo lì a combattere curva su curva disegnando traiettorie e facendo piangere la neve sotto di noi. Ci avvicinavamo, scontravamo, allontanavamo e  riprendevamo trasformando quella gara nella metafora della nostra vita.
Annette approfittò di questi miei pensieri per portarsi al comando tagliandomi la strada con un cambio di direzione molto repentino; diavolo, sembrava migliorare metro dopo metro.

Ora che stava in testa, poteva scegliere il tragitto che preferiva per raggiungere la valle; la conoscevo abbastanza da immaginare la sua prossima mossa anche se speravo non fosse così incosciente. Purtroppo, anche quella volta, il mio intuito ebbe ragione.
Al bivio che ci venne incontro veloce come qualche caro che non vedevamo da tempo, Annette scelse il fianco della montagna che c’avrebbe portato alla ripida dell’Arbiâ. Era una zona particolarmente avversa a tavole di legno che scendono a tutta velocità. C’era neve alta e fresca, molti alberi in zone non sospette e irregolarità nel terreno che potevano farti decollare e volare ma anche farti perdere il controllo facendoti schiantare contro uno degli alberi che si ostinavano a sporcare di verde la ripida. Era considerata come zona off-limits da quando Arbiâ, una ragazza paffuta e dalle gote molto rosse non ci lasciò le pelle cinque anni prima. Lo ricordavo bene, era successo una settimana dopo il nostro arrivo.

Avevamo lasciato la Guascogna dopo che gli affari di mio padre non erano andati come previsto costringendolo a tornare nell’unico posto che odiava più di se stesso, ma l’unico dove si sentisse al sicuro. A casa. Così, mentre mio padre rimetteva a posto la bottega di mio nonno ed io e mia sorella familiarizzavamo col cambio di clima e di onde che avremmo potuto cavalcare lì a Vanésc, la ragazza paffuta venne ritrovata senza più molto da dire sotto un abete.

L'incidente sconvolse la comunità, ci fu un lungo periodo di lutto e riflessione. Per parecchio tempo i cavalieri di tavole vennero visti con sospetto quando non maltrattati, qualcuno addirittura cercò di bandire quei nefasti pezzi di legno ma fortunatamente il suo tentativo sfumò assieme alla neve d’estate. La situazione si era poi ammorbidita, ed anche se ognuno restava fermo sui propri pregiudizi, la gente della provincia di Rhone-Alpés aveva imparato a convivere.

Io e il resto dei Goélands Rouge non avevamo mai solcato il candido manto di quella ripida, un po’ perché memori della piccola Arbiâ ma soprattutto perché da lì iniziava la parte di montagna sotto il controllo dei Mâtins, una banda con la quale i Goélands ebbero un acceso battibecco al Flamingo. Erano ubriachi e non compresero il limpido tedesco di Ruggiero che - vista la loro condotta - aveva preferito saltare il francese.  Tutto questo accadde anni prima del nostro arrivo alle Alpés, ma il tatuaggio alato così simile ad un gabbiano sulla mia mano destra sarebbe bastato ad identificarmi come loro nemico.

Annette era diventata in gamba durante il suo soggiorno italiano, non avevo idea che quegli sbruffoni dei nostri cugini d’oltre Alpi sapessero anche surfare. Qui, però, le condizioni erano estreme, con la fresca che ti accarezza le ginocchia e le lamine che perdono di significato. Mia sorella era in difficoltà e non ci volle molto perché perse il controllo. Un improvviso dislivello le fece perdere equilibrio, la punta della sua tavola si piantò nella neve ponendo così la parola fine alla sua corsa e proiettandola in avanti come in uno scontro frontale. Io, che intanto mi ero avvicinato a una distanza di un paio di metri, la vidi prendere il volo e d’istinto, con una manovra parecchio azzardata, riuscì ad afferrarle parte del cappotto, lo tirai a me e le evitai uno scontro con un pino fermo sulle sue posizioni. Quello che invece non riuscii ad evitare fu la caduta scomposta conseguente al mio salvataggio.

Restai qualche secondo ansimante a farmi consolare dal mio morbido giaciglio di neve fresca. Ero dolorante ma ancora intero. Mi rialzai, mi divisi da Atlantis e a passo d’ubriaco andai verso mia sorella. Speravo fosse viva solo per ammazzarla. Lei era piegata alla ricerca di qualcosa che aveva appena trovato quando mi vide. Lesse quali erano le mie intenzioni dallo sguardo che la caduta aveva spogliato degli occhiali e ricadde all’indietro. Non avrei avuto il coraggio di colpirla ma speravo che la rabbia offuscasse la ragione come era già successo in altre occasioni. Ero a due passi da lei ma con la vista annebbiata non mi accorsi dello strano oggetto che mi scagliò contro. Mi colpì in pieno petto mozzandomi il fiato e smorzando la rabbia. Se la sarebbe cavata anche questa volta.

Mentre rifiatavo, la nebbia dagli occhi e dalla mente si diradava. Semilucido e acciaccato mi accorsi che quell’oggetto brillava; attratto, lo afferrai mentre Annette mi spiegava che era da imputare a quel coso la colpa della sua caduta. La sua tavola aveva cozzato contro qualcosa, non si era impuntata nella neve.
Il coso era circolare, occupava tutta la mia mano e pesava almeno un chilo e mezzo. Era d'oro ed intagliato in maniera molto elegante con quelle che ai miei occhi ignoranti sembravano fantasie triangolari. Incastonata al centro, faceva la sua bella figura una pietra sferica con tutta l’aria di un rubino vista l’intensità del suo colore rosso. Decidemmo di ritornare sui nostri passi per capire contro cosa avesse urtato Annette: per quanto ne sapevamo, non esistevano rocce così simili ad un medaglione.

Raggiunto il pino a cui sarebbe piaciuto scambiare quattro chiacchiere con mia sorella, ci dirigemmo dove la tavola di Annette aveva interrotto la sua scia decollando con biglietto di sola andata. Non vedevamo che neve attorno a noi quando i nostri piedi calpestarono qualcosa di più molle del terreno circostante. Iniziammo a scavare incuriositi quando facemmo riemergere da quel mare bianco una mano livida e ghiacciata, ma sicuramente umana. Non ci potevamo credere e continuammo a scavare finché la palese realtà non sciolse ogni sorta di dubbio: era un cadavere. Era dello stesso colore della mano trovata poc’anzi e aveva due fori all’altezza dei polmoni e uno in mezzo alla fronte che eliminavano una congestione quale causa di morte.

Evidentemente l’urto di mia sorella doveva aver fatto volare da qualche parte di questo corpo quella sorta di medaglione, ma non era questo a preoccuparmi, né il fatto che in pieno inverno il cadavere fosse vestito con camicia bianca di lino e bermuda verde militare. No, quello che mi preoccupava erano i latrati dei mastini che si facevano sempre più vicini.
Cercammo rapidamente dei documenti che potessero identificare quel corpo ma senza successo. Non c’era più tempo, dovevamo andare. Prima però m’impadronii della fodera agganciata ai bermuda del cadavere, certo che non si sarebbe offeso se avessi usato il coltellaccio al suo interno.

Prima di far conoscere la fodera ai miei pantaloni, estrassi per un attimo la mia nuova arma. Aveva un impugnatura di una decina di centimetri a gestire una lama lunga il doppio e dello spessore di almeno cinque millimetri. A dispetto della sua lama estremamente affilata, non doveva avere un grande valore. Figuriamoci. L’estremità del manico era dotata di una bussola rotta che indicava sempre il sud e nessuna azienda ne aveva marchiato l’impugnatura, che invece era stata incisa a mano, probabilmente con un altro coltello. I caratteri utilizzati erano maiuscoli e la parola che si poteva leggere, per quanto strana, doveva essere il nomignolo del coltello o del proprietario. Piora, che razza di nome per un coltello.

Ci riaggangiammo alle nostre tavole e muovemmo immediatamente alla volta del Flamingo Club. I latrati si persero nella distanza mentre in noi s’irrobustiva il desiderio di parlare agli altri della nostra avventura davanti a qualcosa con il colore e sapore del whisky.

Scendevamo come se avessimo dietro il demonio in persona. Sudato, stringevo nella mano destra quella specie di medaglione, cercando d’immaginare in che lingua Ruggiero avrebbe brindato alla nostra incredibile storia.

Come si sarebbe evoluta la serata non lo potevo immaginare, ma ero certo che gli eventi di quella giornata avrebbero cambiato il corso delle nostre vite.

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