giovedì 2 dicembre 2010

Sogno a sud di Piora



Lì c'imbattemmo in altri italiani armati e polverosi: sembravano in viaggio per lo stesso nostro motivo. Come noi, erano stanchi e vestiti di quelli che all'inizio dovevano essere camicie e jeans, ma che ora sembravano poco più di stracci sopravvissuti alla jungla.
Il resto della gente al bar era oriunda del posto con grandi sorrisi e meglio abituata a quel calore squaglia pensieri.


Ordinammo rum e altre schifezze per godercelo meglio mentre gettavamo le nostre membra e zaini su vecchie sedie di legno. Avevo le gambe molli e non so perché ma le braccia sembravano infinitamente più pesanti.
Guardai meglio quello che ad occhi esterni doveva apparire un gruppo inconsueto e variopinto e fui felice di constatare che c'eravamo ancora tutti. Solo Ruggiero era seduto su una sedia diversa; colpa di quelle assurdità che mangia a qualsiasi ora e che anche questa volta l'avevano costretto in bagno. All'inizio non eravamo che io e lui.

Storia semplice. Dopo una serie di granchi rimediati nella nostra ricerca, c'imbattemmo in un diario di viaggio trovato - e poco dopo rubato - nel museo dove lavorava mia madre. L'autore era un certo Juan Abuelo, che dopo molte peripezie aveva sfiorato ciò che oramai da troppi mesi era diventato il nostro unico obiettivo. Una settimana dopo la felice scoperta, io e Rouge (Ruggiero si faceva chiamare anche così) eravamo sulle orme dell'amico Juan.

Al mio fianco sinistro Carlito, uno dei tanti cugini di Ruggiero, sul metro e sessanta, grassoccio, pelle olivastra, tratti orientali e una testa quadrata che sembrava un tutt'uno con il suo inseparabile berretto dei New York Yankees. Di fronte, le tre sventole americane che avevamo conosciuto a Piora. Gente allegra che aveva trovato in noi il loro stesso buon umore ma con una meta da raggiungere. I nomi delle americane non mi erano ancora entrati in testa, ma tanto bastava chiamarle baby per avere la loro attenzione: la nostra piccola vendetta a come i soldati USA dovevano aver trattato le nostre donne durante la liberazione. Quella alla sinistra di Carlito aveva capelli lunghi, lisci e molto neri; gli occhi, dello stesso colore dei capelli, erano curiosi, sempre in movimento; aveva un modo di fare un po' impacciato e parlava poco. Pensavo se la fossero portata dietro di peso dagli Stati Uniti per farla uscire un po' di casa. In realtà le bastava il tempo di assimilare qualche alcolico per trasformarsi in una scimmia da festa. Subito dopo di lei, sedeva "baby 2", capelli a caschetto che toccavano le sue spalle, sorriso spontaneo e sempre pronto come piace a me; occhi scuri e profondi; un po' più bassa di baby 1 ma dotata sicuramente della personalità più forte delle tre americane. L'idea del viaggio e quella poi di seguirci era stata sua. La terza era...Dio mio...ogni volta che il mio sguardo si posava su di lei facevo sempre più fatica ad allontanarlo. Era bellissima, aveva capelli biondi e leggermente mossi che l'accarezzavano sino a metà schiena; occhi di nocciola espressivi e dolci, ma che non ti permettevano di godere di tutte le loro sfumature se non eri il suo compagno. Le labbra erano sottili e si schiudevano facilmente in un sorriso regalando quell'opera d'arte a tutti gli esseri viventi che la circondavano; infine, la pelle ambrata, di quella sfumatura che solo i biondi al quindicesimo giorno di sole possono disporre, completava quella poesia di "baby 3".
A distogliermi fu il ritorno di Ruggiero molto più rilassato dell'ultima volta che l'avevo visto. Se non fosse stato per il suo arrivo non mi sarei mai reso conto che il rum era già sul tavolo.

Di lì a 30 minuti tornavamo ad essere quegli eroi decadenti che la mia memoria spero non dimentichi mai. Abbiamo iniziato a caricare il juke-box di monetine e con l'aiuto di Carlito selezionavamo tutte le ballate reperibili. Poi ognuno di noi con gesti più o meno galanti aveva invitato gente a ballare e dopo poco il locale s'era trasformato in una fiesta.
Nel corso dei giorni s'era formata una piacevole alchimia tra di noi, in situazioni del genere ci muovevamo da soli, ognuno a soddisfare la propria sete di conoscenza, ballando, parlando e scherzando con la gente del luogo, ma ci sentivamo vicini: quasi ad intervalli regolari ci cercavamo e trovavamo con gli occhi, ci scambiavamo cenni d'intesa e tornavamo corroborati a quello che stavamo facendo. Insomma, eravamo un gruppo.
Anche gli altri italiani si davano da fare, ballavano alticci e le loro urla non avevano nulla da invidiare alle nostre. Loro però erano un po' troppo aggressivi nel corteggiamento e dopo qualche screzio e un po' di spintoni dovuto alle nostre baby, riconoscendo ognuno i limiti degli altri, abbiamo sì continuato a bere e ballare, ma ognuno per conto proprio.
Non prima delle 6,30 del mattino raggiungemmo le tende e ognuno si tuffò nel proprio giaciglio senza preoccuparsi di augurare la buona notte a nessuno. Eravamo vicini alla meta ma non tanto da farci perdere il sonno. 

Dopo altri due giorni di cammino verso ovest e grazie alle scorciatoie indicate dal buon vecchio Juan arrivammo ad una specie di bivio. Se avessimo continuato per il sentiero che c'aveva fatto compagnia fino a quel momento, saremmo entrati in quella che sembrava un'altra piccola e molto insidiosa jungla; altrimenti si poteva deviare a sinistra e scendere per quello che aveva tutta l'aria di essere un rassicurante pendio. Juan taceva in proposito e Carlito non si era mai addentrato così tanto in quella parte della regione, bisognava decidere.
In quel momento l'inconfondibile rumore di cavalli al galoppo ci raggiunse.
Attimi di panico ma non potevano essere loro, era impossibile, non così in fretta.
Dai nostri precari nascondigli ci accorgemmo che erano quegli italiani incrociati pochi giorni addietro, e che dopo pochi momenti scomparvero nella jungla. Tirammo un sospiro di sollievo, poi stanchi di quella vegetazione asfissiante e p
er non correre il rischio d'imbatterci ancora in quei don Giovanni da strapazzo 
optammo molto velocemente per il pendio
.





D
opo un'oretta di cammino superammo una curva cieca senza troppe speranze, ma eccolo lì di fronte a noi: l'oceano. Limpido e possente come come può apparire solo al primo mattino. Avevamo raggiunto il Pacifico. Dieci secondi di contemplativo silenzio. Il giusto tempo di riprenderci da quello spettacolo ed eravamo già in corsa per raggiungerlo, saltavamo, inciampavamo, cadevamo: bambini che non avevano mai visto il mare.

Dopo un po' di scherzi e festeggiamenti acquatici, Ruggiero individua una catapecchia più o meno a 200 metri da noi, con le sembianze di uno di quei baracci che ci piacevano tanto. Abbracciò baby 1, che ora con il suo aiuto riusciva a mormorare qualche parola anche da sobria, e si mossero in quella direzione. Dopo un altro po' di guerre nell'acqua dove io e Carlito portavamo sulle spalle le ragazze e ogni coppia cercava di far crollare l'altra, ci scoprimmo stanchi e felici. Muovemmo allora verso il bar. Io ero l'ultimo del gruppo, raggiunsi la baby bionda abbracciandola alla vita, la sollevai e con tutto il garbo richiesto dal momento l'accompagnai sottacqua. Riemergemmo sorridenti e vicini. L'acqua in quel momento non era più alta del nostro petto, io dolcemente le spostai una ciocca di capelli dal viso mentre i sorrisi lentamente si stemperarono. I suoi occhi non mi sfuggivano più, anzi mi cercavano come in cerca di una risposta. Era meravigliosa ed in quel momento credevo di essere entrato in sintonia con i segreti del mondo. Proprio quando comprendevo cosa la vecchia Virginia intendesse con "Moment of Being", una roboante esplosione di polvere da sparo squarciò il cielo rompendo l'incantesimo e facendomi ritornare precipitosamente sulla sporca Terra che conosciamo. Ci voltammo tutti in quella direzione, ma solo io, Carlito e Ruggiero sapevamo cosa sarebbe successo di lì a poco.

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